Quando parliamo di mito
si apre in noi il versante della meraviglia e della lontananza, ma non
solo: come dicono Freud e Jung, i
miti ci mettono in comunicazione con il nostro Inconscio, individuale e
collettivo; parlano ‘a’ noi e ‘di’ noi. Gli eroi e gli dei greci sono
rappresentazioni della nostra interiorità, anzi ‘sono’ i nostri
sentimenti, pulsioni, istinti, sensazioni. Le figure degli eroi
compaiono per la prima volta nella scrittura con i poemi omerici. Da
esse ha origine la nostra letteratura e tuttora, insieme alla città di
Troia, costituiscono un mito fondante del nostro immaginario, un mito
che si è sviluppato rigoglioso attraverso i secoli, continuando a
produrre fino ad oggi altre opere: poetiche, narrative, teatrali,
figurative. Trent’anni fa, mettendoci in viaggio in traghetto incontro al
mito, scegliemmo dunque l’approdo di Izmir, l’antica e favolosa Smirne
(dove pare che Omero sia nato, ammesso che sia esistito veramente), la
quale fu un centro ittita, come - secondo alcuni storici - l’intera
Troade.
L’assedio di Troia
non sarebbe che un episodio della guerra scatenata dai Micenei, o
Achei, o Argivi (come li chiama talvolta Omero) contro gli Ittiti,
per il dominio dell’Anatolia. Questi ultimi, un popolo indoeuropeo,
si stanziarono all’inizio del II millennio a. C. nella penisola
anatolica, stabilendo la capitale ad Hattusa, (circa 150 km
dall’odierna Ankara, a 1000 metri di altezza) e assoggettarono poi
l’intera Asia Minore. In breve tempo crearono un forte impero
scontrandosi con gli Egizi e poi con i Babilonesi, che sconfissero
nel 1530.
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Quasi
contemporaneamente gli Achei, un altro popolo indoeuropeo proveniente
dal Caucaso, avevano conquistato la penisola ellenica.
Nel 1450 si impadronirono dell’isola di Creta assimilandone la civiltà
per formarne una nuova: quella micenea, così
detta dalla loro capitale, nel Peloponneso. Nel secolo XIII iniziarono
la penetrazione nell’Anatolia occidentale
sconfiggendo l’Impero ittita; al 1250 si fa risalire la guerra di
Troia, la cui posizione sull’Ellesponto (oggi Dardanelli) permetteva di
commerciare con tutti i paesi che cingevano il Mar Nero. Nel 1150 i
Micenei vennero sconfitti dai Dori (un popolo considerato rozzo e
brutale, “barbaro”, insomma), che invasero la penisola ellenica.
Ecco dunque tracciato
il nostro itinerario: in Turchia gli Ittiti, per cominciare veramente
“dall’inizio”, poi Troia e infine, a ritroso, Micene in Grecia.
Visitammo per prima Hattusa, la capitale ittita, entrando per la Porta
dei Leoni dalle fauci ancora spalancate per respingere le potenze del
male.
Qui nel 1906 la
temerarietà di uno dei tanti personaggi eccentrici, che si incontrano
spesso nella storia dell’archeologia,
aprì un varco nel buio
del passato: il professore universitario Hugo Winckler effettuò infatti
un clamoroso ritrovamento. Era un accademico topo di biblioteca,
testardamente sicuro delle proprie opinioni - ancor più quando tutti le
contestavano - e per dimostrare che aveva ragione non esitò ad
affrontare un viaggio in Turchia, tremendo quanto a disagi, per lui che
non aveva mai messo piede fuori da Berlino. E ne fu ampiamente
ricompensato perché trovò 34 tavolette in scrittura cuneiforme che
nominavano in una lingua fino ad allora misteriosa gli Akhiawa, cioè gli
Achei; uno dei loro re, Menelao, e poi Wilusa:
Ilio, anche detta Taruisa, cioè Troia. Così decifrò finalmente la
lingua degli Ittiti.
Soltanto agli inizi
dell’800 qualche spericolato studioso aveva iniziato a cercare le
tracce di questa popolazione, della quale si conosceva soltanto il
nome: Charles Texier, ad esempio, nel 1839 aveva descritto le
imponenti porte di accesso della capitale, “grande come Atene”.
Le rovine delle
antiche città furono una vera sorpresa per me, un’esperienza
straniante: si ergevano isolate come se fossero state dimenticate in
quei luoghi deserti e totalmente silenziosi, ancora lontani dai
consueti itinerari turistici. Si poteva quasi pensare di essere i
primi a posarvi lo sguardo dopo secoli. Ma era proprio questo loro
abbandono, questa apparente inutilità, che le rendeva testimoni
della durata, diciamo pure dell’eternità, del tempo.
E la loro presenza,
potente seppure così frammentata, acuiva e faceva saltare agli occhi
quella grandezza assente di cui erano simbolo.
Nel Santuario di
Yazilikaya (Rupi scritte) emergevano lentamente davanti ai
nostri occhi sfilate cerimoniali composte da folle di figure.
Sacerdoti e re, ciascuno con il suo nome in rilievo, soldati in
marcia, 66 divinità incise in cortei lungo una stretta gola: a
destra quelle femminili con il copricapo a torre e le braccia
protese; a sinistra quelle maschili in figura di guerrieri, con
spade falcate e l’elmo a punta tipico del dio della tempesta. E
ancora oggi, incessantemente, i due cortei continuano a sfilare
senza mai incontrarsi, incuranti che intorno a loro ci sia il
silenzio o il vociante affollarsi degli spettatori.
A pochi chilometri,
la Porta delle Sfingi di Alaca Huyuk con la sua imponenza
rappresentava ancora degnamente il ricco principato di cui la città
era stata centro.
Nelle sue tombe
regali, scavate verso la metà del secolo scorso gli archeologi
turchi Arik e Kosay trovarono un tesoro che - dissero - eclissava
quello di Priamo a Troia. Erano oggetti in bronzo argentato:
stendardi circolari in forma di grata con decorazioni fantastiche,
animali, diademi e spille d’oro.
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La certezza degli
antichi studiosi che la guerra di Troia fosse un evento storico si era
andata dissolvendo dal Medioevo in poi, cosicché l’Iliade e l’Odissea -
le prime opere poetiche del mondo occidentale scritte da Omero verso la
fine dell’VIII secolo a. C. - erano ritenute narrazioni di invenzione.
Fino all’avventura di un altro testardo tedesco, Heinrich Schliemann:
un abilissimo uomo d’affari che aveva girato tutto il mondo e per pura
passione diede inizio a un nuovo filone dell’archeologia, usando la sua
immensa fortuna (accumulata anche grazie alla corsa dell’oro in
California) per realizzare il sogno adolescenziale di scoprire Troia,
tenendo l’Iliade come guida.
Nel suo Diario
descrive con intensa efficacia il primo incontro con la città
sognata: “Per due ore feci sfilare davanti ai miei occhi i fatti
principali dell’ Iliade, finché l’oscurità e una gran fame mi
costrinsero a scendere.”
Mi sarebbe
veramente piaciuto assistere allo spettacolo singolare del grande
entusiasta che si chinava religiosamente sul fiume di Troia: “Ogni
volta dovevo piegarmi sull’acqua appoggiandomi alle braccia, che
affondavano nel fango fino ai gomiti. Ma provavo una grande gioia
nel bere l’acqua dello Scamandro e pensavo che migliaia di persone
affronterebbero volentieri difficoltà molto più gravi per poter
vedere questo fiume divino e gustarne l’acqua”. |
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Non era stato facile
convincere le autorità turche a concedergli il permesso di iniziare gli
scavi nella collina di Hissarlik, la quale - ne era certo - nascondeva i
resti della CITTà; ma
finalmente ci riuscì nel 1871 dopo aver superato una serie di peripezie,
non ultime le trattative con alcuni corrotti funzionari turchi che
volevano addirittura essere pagati per controllarlo e pretendevano metà
del tesoro che avrebbe trovato, per destinarlo naturalmente ai musei.
Dovette cedere, ma qualche tempo dopo scoprì di persona che non soltanto
i suoi oggetti non erano arrivati al Museo archeologico di Ankara, ma il
Direttore non ne aveva mai sentito parlare.
Per fissare la
posizione di Ilio percorreva a passi misurati la collina leggendo a gran
voce i versi dell’Iliade e mentre si guardava intorno, ispirato come se
vedesse Achille correre a gran galoppo intorno alle mura, non
tralasciava di calcolare con precisione quale distanza avesse percorso
l’eroe in questa o altre occasioni, per stabilire con esattezza la
distanza tra città e gli accampamenti, e tra questi e il mare.
E fu partendo da
queste riflessioni storiche, geografiche e letterarie - estatiche e
logiche insieme - che scavando, spesso con le sue stesse mani, trovò
addirittura dieci strati di abitazioni (di cui il sesto pare
corrispondere cronologicamente alla città descritta da Omero). E
alla terra strappò, stupefatto e felice, ceramiche e gioielli:
un’enorme cassa colma di calici, splendidi diademi, piatti, anelli,
collane, bottoni, braccialetti, orecchini, tutti d’oro, un tesoro di
circa 9000 pezzi.
Probabilmente,
durante il dilagare assordante e spaventoso degli Achei, la cassa
era stata preparata da un membro della famiglia di Priamo, che però
la dovette abbandonare, forse per fuggire più velocemente
dall’incendio che divampava e la ricoprì di cenere rossa e di pietre
del vicino palazzo reale. |
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Certo, le datazioni di
Schliemann furono poi contestate e cambiate dagli archeologi, ma
l’importante è che ci abbia riconsegnato con uno sguardo lungo dentro al
passato, un’immagine “storica” di quelli che ritenevamo fossero soltanto
miti.
Così, con animo
reverente e grato a lui, mi aggiravo con il fiato sospeso tra i pochi
ruderi della minuscola Troia, per scoprire (vedere le foto nei libri non
è assolutamente la stessa cosa) con sbalordita incredulità che la città
era esistita davvero ed era proprio lì, davanti ai miei occhi; era
senz’altro molto più piccola di quanto immaginassi, ma il mito di Troia,
a lungo coltivato nella mia mente, contribuiva a ricostruire ciò che non
si vedeva più.
Racconta Omero
nell’Iliade che il re Agamennone era partito da Micene per muovere
contro Troia con i suoi eserciti insieme agli altri re micenei: da
Sparta Menelao (suo fratello, e sposo di Elena rapita dal troiano
Paride), e poi Achille dalla Tessaglia, Nestore da Pilo, Ulisse da
Itaca, Aiace Telamonio da Salamina.
Nel 1874 Schliemann
arrivò a Micene, seguendo gli scritti dello storico Pausania; gli
scavi della città erano già iniziati, ma fu lui a riportarne alla
luce le mura “ciclopiche”, e i ricchissimi corredi funebri delle
tombe cosiddette “di Atreo” e “di Agamennone”.
Emersero sigilli
incisi, oggetti di bronzo e di ceramica, gioielli e coppe d’oro;
quando scoprì maschere d’oro sul volto degli uomini sepolti, con
soddisfatto orgoglio annunciò al mondo intero di aver trovato “La
maschera di Agamennone”.
Non lo
interessavano soltanto i reperti più preziosi e sensazionali, ma
ogni minimo frammento. Scrive infatti: “Poiché nelle rovine
appartenenti alla notte buia dell’età pregreca ogni oggetto recante
traccia di arte umana rappresenta per me una pagina di storia, devo
soprattutto badare che niente mi sfugga.”
A Micene noi
arrivammo di sera tardi, quando ormai l’ondata dei viaggiatori era
rifluita, come in “un circo prima o dopo lo spettacolo”. E dunque la
città poteva ritornare alla solitudine e al vuoto delle antiche
rovine. Tutt’intorno non c’erano costruzioni, il paesaggio spoglio e
selvaggio sembrava essere rimasto intatto, così come lo vedevano un
tempo i Micenei. Dal silenzio totale emergevano netti il canto degli
uccelli, i belati, il fruscio delle erbe secche smosse dalle zampe
delle capre che si arrampicavano sulle rocce. Nel loro millenario
distacco le mura diroccate continuavano a tornare ad essere rocce
nel colore e nella forma, con le rocce si confondevano, fingevano di
sparire. Così lo spettacolo dell’arte si combina con quello della
natura: la contemplazione solitaria delle rovine è esperienza del
tempo puro, si ritorna alla coscienza profonda della storia.
Ed ora, scorrendo
le fotografie che ho riportato da quella avventura, insieme
all’emozione di allora scopro qualcosa di nuovo: il passaggio dal
formato della diapositiva a quello digitale - se non eccelle per
l’impeccabilità tecnica - le riveste tuttavia di un’atmosfera
inedita aggiungendo, ai 3 millenni e più dei soggetti ritratti, uno
spessore temporale personale di tre decenni passati da allora.
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