JOYCE LUSSU - LUANA TRAPè
ELOGIO DELL'UTOPIA
ANTEFATTO
A mia figlia Elisa, e ai miei nipoti Mattia e Marco
All’inizio del 1998 andai a Roma a
trovare Joyce Lussu che passava l’inverno dal figlio Giovanni, parcheggiai alla
stazione Tiburtina e poi presi la metropolitana: non mi sentivo in grado di
arrivare in macchina fino a Via Duilio, come avevamo fatto in autunno quando
l’avevo accompagnata. Ma allora mi aveva guidata lei, anche se ormai non poteva
vedere più nulla, conducendomi con precisione da una via all’altra, indicandomi
per tempo quando dovevo girare a destra o a sinistra per l’itinerario meno
congestionato.
Dopo gli abbracci e il tè e i biscotti, Joyce accese una
sigaretta e mi annunciò il suo recente progetto: “Dobbiamo scrivere un altro
libro per riconsegnare ancora una volta un senso positivo a parole usate
comunemente in modo distorto”.
Ci eravamo appena dedicate alla civetteria, riscoprendone le possibilità di donare gioia, grazia e
allegria, in un volume che stava per essere stampato. Adesso voleva affrontare
la parola utopia, “restituire un significato positivo per la
vita collettiva a questa parola che tutti usano a sproposito (come tante altre,
democrazia, libertà) senza conoscerne veramente il senso”.
Era una sua dote
peculiare, infatti, la capacità di situarsi, rispetto alla contemporaneità, in
quell’anacronia che permette di sottrarsi alla ferrea logica del presente
identificandosi con il continuo divenire, e trarre dai materiali dell’oggi un
suggerimento positivo per la vita collettiva.
Non era sua intenzione elaborare delle teorie nuove - mi disse quel giorno -
quanto piuttosto dare una sistemazione organica al pensiero di un’intera
esistenza, scartando le idee che riteneva ormai superate e adattando alle
esigenze di un mondo sempre nuovo quelle che avevano resistito ai mutamenti
epocali. Come sempre, non si trattava di una meditazione intellettualistica
condotta per il puro gusto di esercitare la mente o creare dei bei concetti,
bensì di “un’indagine concreta sulla parola utopia
per liberarla dalle stratificazioni negative accumulate nel corso del tempo e
ripristinarne il senso originario, ribaltando il significato da sogno
inverosimile a progettazione concreta di
una società realizzabile nel futuro.
Ed era proprio
questo il motore della sua vita. Quando infatti si erano allontanati i
tempi della Resistenza, del dibattito
politico dei grandi temi, dei movimenti internazionali per la pace, Joyce aveva
iniziato la sua opera di grande tessitrice di incontri diretti, scambi e
relazioni, per discutere e progettare eventualità aperte, perché - diceva -
“non vi può essere vero progresso collettivo che non passi attraverso il
rivolgimento reale dei singoli individui.” Possedeva la grande dote di saper
conquistare, di trascinare gli amici e
gli ammiratori con la forza della passione: ai gruppi ristretti che
frequentavano la casa di San Tommaso di Fermo si proponeva con la severa
fermezza dell’antico maestro che chiede non soltanto ascolto o semplice
adesione ad affermazioni astratte di principio, ma partecipazione ad un diverso
modo di vivere, scevro da avidità, accumulazione e spreco di beni.
La sua proposta di scrivere
sull’utopia mi parve una prova molto impegnativa, una sfida temeraria, ma la
accettai. Iniziai subito a registrare le sue idee: il racconto delle sue idee. La guardavo slanciarsi verso il futuro con
l’entusiasmo che ancora animava la sua voce, all’età di 86 anni;. la vedevo
intraprendere ad occhi socchiusi, con tono forte e sicuro, il viaggio in una
notte illuminata dai lampi delle sue meditazioni, delle sue memorie.
Tornata a casa iniziai a studiare: volevo situare le
sue idee all’interno del flusso
ininterrotto di storici, filosofi, scrittori, che si erano occupati
dell’argomento Una volta al mese tornavo
a Roma per ascoltare ancora Joyce e leggerle i miei scritti. Viaggiavo in
autobus, che mi dava il tempo di rivedere e riordinare gli appunti, fino alla
Stazione Tiburtina, poi la metropolitana fino a Piazza del Popolo, e infine
arrivavo al quartiere Prati. A giugno la prima bozza del lavoro era impostata.
Dalle mie ricerche avevo tratto la
conclusione che la concezione dell’utopia della Lussu dialoga in più punti con
le teorie di numerosi pensatori (alcune le anticipa), le assimila e le ingloba
in un percorso di pensiero che si può senz’altro dire originale.
Soprattutto, la sua forza consiste nel
non essersi limitata all’elaborazione di un pensiero astratto (che “non basta - diceva - per creare un discorso comune, per mettersi
a fare le cose insieme”), ma nell’aver voluto sempre sperimentare e
suggerire una pratica di vita; la sua
era un’utopia vissuta.
Quando arrivò l’estate (l’ultima della sua
vita), Joyce venne da sola in autobus a Fermo, e mi invitò a passare alcuni
giorni con lei a San Tommaso. Nascosto dietro a una siepe circolare di alte
canne e palmette, c’è lo “strocchio”, un edificio rettangolare che si sviluppa
attorno a un cortile ed ospitava un tempo
aranci e limoni durante l’inverno.
Era tarda mattinata, l’ombra tagliava
a metà il cortile e il pozzo. Posammo i bagagli nel soggiorno. Sulle pareti
tutte bianche pioveva la luce dal cielo e dalle ampie vetrate.
Lì, nel “buon luogo” vivemmo molti giorni insieme.
Joyce era molto stanca e provata, ma non voleva smettere di
lavorare. In agosto l’Elogio dell’Utopia era pronto.
Le sue considerazioni registrate di volta in volta, (che oggi
appaiono come un testamento spirituale) conservano qui ancora l’immediatezza
del parlato.
Su quel canovaccio ho impostato un percorso: storico per i
primi due capitoli, e tematico nei successivi, organizzato piuttosto
liberamente lasciando spazio a intuizioni, memorie e divagazioni. Ho tessuto un
contrappunto tra le nostre voci e molti libri: della Lussu prima di tutto, e
poi libri di filosofia, sociologia, storia, ma anche di poesia: perché nella
poesia l’utopia continua a manifestarsi senza sosta, con una sorta di veggenza,
espansione e profonda devozione.
Il nostro scritto, sospeso dopo la sua scomparsa, viene
proposto nella veste da lei ascoltata ed approvata, senza alcuna modifica o
aggiunta.
Perché pubblicarlo oggi? Pur nell’estrema diversità delle
condizioni storiche, viviamo in una condizione instabile di violenza, disordine
e disintegrazione sociale, fattori comparabili a quelli che ispirarono la
stesura della Repubblica di Platone e dell’Utopia di Tommaso Moro.
In questi tempi cupi, quando la necessità di mantenere il potere
o di conquistarlo sembra giustificare qualsiasi sopraffazione, guerra e
distruzione; quando scarsissima o nessuna cura è dedicata al futuro delle nuove
generazioni; quando molti, giunti a credere cancellata la possibilità di azione
civile per fermare ingiustizie e soprusi, si misurano con un paralizzante senso
d’impotenza; quando, di conseguenza, la passione dell’utopia sembra via via
spegnersi fino a scomparire o albergare ancora in pochissimi - quasi naufraghi:
credo sia giunta l’ora di far risuonare ancora una volta la voce di Joyce che
sprona a non perdersi d’animo, a non lasciarsi sopraffare dallo sconforto,
anche se si crede che non ci sia più nulla da fare. Che esorta, anzi, a porre
anzi l’accento non su ciò che non va, ma piuttosto sugli aspetti positivi
dell’esistenza che esistono già o che concretamente si potrebbero costruire.
Non offre soluzioni, ma incoraggia ognuno a inventare la propria forma di
intervento per “provare a cambiare il mondo” con la forza e le possibilità di
cui dispone.
Luana Trapè
Giugno 2016